Tutti gli adulti sono stati bambini, ma in pochi se lo ricordano
L'ultimo articolo del blog è finito con la domanda sul valore terapeutico del teatro.
Per rispondere a questo quesito mi piacerebbe parlare dei bambini e degli adulti che sono stati e sono ancora bambini.
“Tutti gli adulti sono stati bambini, ma in pochi se lo ricordano”.
Questa è sicuramente una delle frasi tratte da “Il Piccolo Principe” più utilizzate in segnalibri, dediche, post sui social, ed è talmente sdoganata che rischia di perdere efficacia. Vale la pena analizzarla.
Che vuol dire essere bambini e perché l’adulto dimenticherebbe la sua prima dimensione che ha vissuto nella vita?
Partiamo dall’etimologia della parola. Bambino ha sicuramente un’etimologia onomatopeica. Infatti, B, M ed N sono le prime lettere che pronuncia un bebè in modo del tutto inconscio. Una prima idea potrebbe essere che la parola bambino derivi dal diminutivo di bambo, una forma arcaica che indica lo sciocco, ma anche dal termine greco βαμβαινω, letteralmente balbettare, rintracciando sempre un significato onomatopeico. Quindi da una parte una figura senza capacità di pendere decisioni, lo sciocco, e dall’altra una figura invece di chi si sta approcciando al linguaggio, il balbuziente.
Riesco a trovare un importante legame tra le due etimologie. Quello dell’inesperienza.
Al bambino piccolo manca l’esperienza dell’adulto. Avendo poche conoscenze il suo mondo è semplice, è fatto di risposte brevi, pensieri coerenti e richieste che sono esattamente legate ai bisogni. Hanno fame e piangono, hanno freddo e chiedono di essere coperti, hanno sonno, dormono. Vivono solo nel qui e ora. Sembra che tutto il loro mondo sia a portata di mano degli adulti che gli stanno vicino.
I bambini poi, crescendo, iniziano a guardare la realtà e ad immaginarla proiettata nei loro giochi. E non fanno finta di essere dei supereroi o delle principesse, loro credono fermamente di esserlo. La loro mente, priva di esperienza, ha spazio per il gioco dell’immaginazione e del teatro del vero.
Ecco allora chi sono i bambini, degli uomini in divenire la cui poca esperienza permette all’immaginazione di prendere il primo posto nei giochi e nei sogni.
E poi che succede? Perché gli adulti dimenticano questo?
Probabilmente l’esperienza, la conoscenza di numerose cose, le responsabilità, la mancata richiesta specifica di un proprio bisogno e l’incapacità di soddisfare i bisogni altrui, chiude lo spazio dell’immaginazione che, da ossigeno per il bambino, diventa la prigione dell’adulto. Immaginare di vivere in un castello per un bambino è un momento magico di gioco, per un adulto può essere frustrante. Immaginare di avere dieci bambole come figlie per una bambina è l’espressione massima della gioia, per una donna può essere un dolore, un imbarazzo o un pensiero inutile. Ma la nostra mente continua a vivere delle emozioni che l’immaginazione produce. I nostri sogni più grandi, quelli che chiudiamo nei cassetti segreti dei sogni usuali, possono essere realizzati solo se tirati fuori.
Allora ecco il rovescio della medaglia, non sono più dei sogni chiusi in un cassetto, ma abbiamo un cassetto segreto nei nostri sogni che possiamo aprire solo a patto che prendiamo per mano il bambino che è diventato l’io adulto e gli chiediamo di farci giocare ad immaginare senza però farci del male. Come quando eravamo bambini, che giocavano solo per emozionarci e non per illuderci o soffrire.
Questo è quello che avviene in teatro. Un adulto, preso dalla carriera e dal mandare avanti la famiglia, non crederà mai a ciò che vede e se ne distaccherà sempre, ma un adulto che cede all’immaginazione saprà specchiarsi in chi vede e si libererà di tante prigioni che la vita obbliga a costruire. E questo avviene in modo inconsapevole, mentre immaginiamo una storia che sta vivendo realmente davanti a noi, e decidiamo se quella storia può o meno entrarci dentro e scuoterci con una risata, con una lacrima o con un senso di pace piuttosto che di inquietudine.
Si fa teatro, dunque, per guardarsi allo specchio, per conoscere meglio se stessi e la vita, emozionarsi e immaginare.
Questo è quello che ci portiamo a casa dopo aver visto o realizzato uno spettacolo, qualcosa che cambia inevitabilmente la giornata e i pensieri. Ecco perché all’uscita da uno spettacolo teatrale o da un laboratorio di teatro non si è mai uguali a quando, un paio di ore prima, vi abbiamo fatto ingresso. Perché ci si è guardati allo specchio, si è acquisita consapevolezza, ci si è emozionati attraverso l’immaginazione e il rispecchiamento di sé negli altri.
Da queste considerazioni deriva la grande responsabilità di chi fa teatro, in qualsiasi ambito e in qualsiasi ruolo. Responsabilità non solo tecnica, ma etica e morale. Perché se i teatranti non credono in quello che fanno, se non si formano adeguatamente, sia da un punto di vista tecnico che relazionale e sociale, se non danno corpo alle parole che un autore ha lasciato scritte su un foglio, se non vivono o fanno vivere la vita dei personaggi, comprendendone le ragioni e interpretandone i sentimenti, allora sarà stato vano il tempo speso in laboratorio, sul palco e in platea.
È molto emozionante pensare a come il teatro riesca a riunire centinaia di persone, farle stare in silenzio ed emozionarle tutte insieme.
Questa è per me la magia del teatro.
© Copyright Mariagabriella Chinè
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